Un’innovativa decisione della Suprema Corte sul mantenimento del figlio maggiorenne.
L’ordinanza della Corte di Cassazione (17183/2020), mirata a porre dei limiti temporali al diritto dei figli maggiorenni ad essere mantenuti dei genitori, in realtà prende una posizione, molto innovativa, su tanti altri aspetti collegati al mantenimento dei figli di qualsiasi età, ai diritti-doveri dei genitori e all’affidamento condiviso. L’analisi finisce in tal modo per scardinare molti dei precedenti assunti della giurisprudenza, nonché della stessa Corte di Cassazione.
Il ricorso (respinto), presentato dalla madre di un figlio di 33 anni con lei parzialmente convivente e in condizioni di lavoro precario, intendeva sostenere la tesi che non esiste limite di età al diritto di un figlio maggiorenne ma economicamente non autosufficiente a continuare a tempo indeterminato a ricevere un contributo economico del genitore in precedenza obbligato a versare un assegno in suo favore; nonché a mantenere il godimento della casa familiare.
Riportiamo il testo dell’art. 337 septies c.c.: “Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto”. Questa disposizione è stata sistematicamente ignorata, nella automatica prosecuzione del regime precedente. D’altra parte la modalità dell’assegno (forma indiretta) era ben giustificabile con l’assunzione delle proprie responsabilità da parte del figlio, riconosciuto adesso capace di autogestione e creditore verso entrambi i genitori, secondo modalità che sarebbe stato auspicabile ridefinire o almeno riconsiderare.
Ben diversa adesso, tuttavia, la lettura dell’ordinanza: “… l’estraneità del tema al rapporto fra i genitori risulta in modo incontrovertibile dal diritto positivo: l’assegno “è versato direttamente all’avente diritto” “. Addirittura, si deduce dal disposto che non solo il genitore “convivente” non avrà più titolo per agire in giudizio contro il genitore obbligato, ma un versamento del contributo nelle sue mani potrà essere contestato dal figlio maggiorenne, che dichiarerebbe legittimamente di “non avere percepito alcunché” . Non solo: la Suprema Corte percepisce che continuare a far interagire i genitori ai fini del mantenimento di un figlio ormai maggiorenne non fa che accrescere tensioni e malessere: “il reale conflitto che emerge e gli interessi sottesi, che impropriamente giocano un ruolo, sono quelli tra i genitori, non con il figlio maggiorenne ormai adulto.”. E a ciò associa una diversa lettura della presenza del verbo servile. Anzitutto deve verificarsi che effettivamente il figlio, non per sua colpa, non è in grado di automantenersi. Dopo di che il giudice ha facoltà di disporre un soccorso in suo favore, precisando che, riscontrato il sussistere delle circostanze che fondano il diritto, il soccorso deve essere disposto: “alla raggiunta prova della integrazione delle circostanze che fondano il diritto, il giudice sarà tenuto a disporre l’assegno in discorso.”.
Le conclusioni appena accennate trovano poi piena giustificazione in una ampia serie di considerazioni di buonsenso, che invocano non solo principi di equità (ad es., nei confronti nel dovere di non chiedere ai genitori sacrifici sostitutivi di quelli che l’interessato sembra non disposto a compiere) ma anche sostenuti da una ricchissima serie di convincenti citazioni di circostanze nelle quali il diritto fa appello al dovere di essere autoresponsabili. Mediante considerazioni di buon senso si sottolinea che al di sopra dei trent’anni è lecito presumere che un figlio abbia completato la propria formazione nonché abbia avuto il tempo per trovare di che mantenersi. Anche qui, tuttavia, la Corte prende le distanze dalla prassi sostenendo che le ambizioni di un figlio ben possono ridimensionarsi in nome della dignità di una propria autonomia e in nome dell’obbligo morale di non chiedere propri genitori un sacrificio maggiore di quello che si è disposti a fare in prima persona. E dà risposta anche al diffuso alibi dei maggiorenni: non avere trovato una occupazione adeguata alle ambizioni legittimamente coltivate, visti i propri titoli di studio, prendendo le distanze anche da precedenti di legittimità. Dimostrando grande modernità e adeguatezza ai tempi la Cassazione invita il soggetto di cui si sta occupando a ridurre eventualmente “le proprie ambizioni adolescenziali” pur di trovare il modo di auto-mantenersi. Una posizione perfettamente in linea con i recenti negativi interventi sulla automatica corrispondenza dell’assegno divorzile al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio. Si tratta, dunque, evidentemente, di un richiamo a principi ispirati a criteri di merito e dignità della persona, in dissenso verso precedenti (e attuali) scelte assistenzialiste.
Altro fondamentale aspetto dell’intervento della Suprema Corte è da vedersi nella inversione dell’onere della prova, che si sposta a carico del beneficiario, contro costante giurisprudenza precedente: “Non è dunque il convenuto – soggetto passivo del rapporto – onerato della prova della raggiunta effettiva e stabile indipendenza economica del figlio, o della circostanza che questi abbia conseguito un lavoro adeguato alle aspirazioni soggettive. Infatti, raggiunta la maggiore età, si presume l’idoneità al reddito, che, per essere vinta, necessita della prova delle fattispecie che integrano il diritto al mantenimento ulteriore.”
La necessità di provare l’esistenza del diritto comporta già, di per sé, una valutazione del giudice. Passaggio, comunque, chiarito meglio come segue, a proposito dello scattare della maggiore età: “Da tale momento, subentra la diversa disposizione “in favore dei figli maggiorenni”, di cui all’art. 337-septies c.c., comma 1, ogniqualvolta essi siano “non indipendenti economicamente”: nella quale l’obbligo non è posto direttamente ed automaticamente dal legislatore, ma è rimesso alla dichiarazione giudiziale alla stregua di tutte le “circostanze” del caso concreto.
Esso sarà quindi disposto – pena la superfluità della norma di riserva alla decisione del giudice – non solamente e non semplicemente perché manchi l’indipendenza economica del figlio maggiorenne ma occorre eliminare ogni automatismo, rimettendo essa al giudice la decisione circa l’attribuzione del diritto al mantenimento, prima di quel momento inesistente.
Cercando di comprendere e anticipare quali saranno le ricadute concrete delle indicazioni della Suprema Corte, può essere motivo di preoccupazione la sorte del coniuge debole a seguito di questo suo nuovo orientamento. Realisticamente, la gestione delle risorse destinate al figlio maggiorenne in regime di convivenza con esso, oltre tutto conservando il godimento della casa familiare, rappresentava indubbiamente una sorta di ancora di salvezza, di ciambella di salvataggio per il genitore meno abbiente. Di regola la madre. È pertanto del tutto comprensibile che i principi di diritto enunciati nell’ordinanza possano essere visti con apprensione. L’ordinanza, tuttavia, sul punto è estremamente chiara. L’articolo 2 della costituzione, ovvero il principio di solidarietà, continuerà ad avere pieno effetto. Dunque ciò che si vuole è solo che ciascuno riceva ciò che a lui spetta e che non si cerchi di risolvere i propri problemi per scorciatoie che la legge non ammette; anche se finora sorprendentemente praticabili. In altre parole, è la via surrettizia per risolvere le difficoltà che non può essere considerata accettabile, fermo restando che il soggetto debole avrà tutto il diritto di chiedere un adeguato sostegno con un’iniziativa, però, a sé stante.
D’altra parte l’ordinanza prende posizione, con lo stesso spirito, anche sul problema dell’assegnazione della casa familiare, ribadendo che ai fini della permanenza di un diritto al godimento della casa familiare la coabitazione dovrà avere carattere di stabilità e continuità. Mentre in precedenza era stato più volte affermato che anche lo studente fuori sede, che tuttavia rientrasse in occasione delle vacanze nella casa familiare, dava diritto al genitore collocatario di mantenervi la residenza.
In realtà, come già osservato, il vero problema, che dovrebbe influire già oggi sia sulla gestione delle risorse che sull’assegnazione della casa familiare e sul permanere del diritto ad abitarvi in presenza di un figlio maggiorenne non autonomo, non consiste tanto nella quantità di giorni che un figlio trascorre presso un genitore rispetto a quando si trova altrove, quanto nel fatto che divenuto maggiorenne può oscillare in modo imprevedibile tra l’abitazione del padre e quella della madre: il che rende non plausibile ogni attribuzione del godimento della casa familiare in nome della “convivenza” con il figlio. Ovvero vanifica ogni possibilità di deroghe rispetto ai criteri ordinari, fondati sui diritti reali nei confronti del bene.
Ancora una volta, comunque, come per tutte le scelte paritetiche, occorre respingere la tentazione di sostenere che questa decisione penalizza il figlio, perché così non è; di per sé. Difatti, se sono state applicate fedelmente le indicazioni dell’affidamento condiviso il figlio avrà frequentato equilibratamente entrambi i genitori e la casa familiare sarà stata assegnata a chi poteva vantare su di essa un diritto reale, che la presenza o meno del figlio non andrà a toccare nel momento in cui si emancipa. Ciò mentre il coniuge, se debole economicamente, avrà ottenuto un sostegno adeguato a reperire un alloggio adeguato, quanto meno perché per uguale tempo dovrà ospitarvi il figlio. Così come giustamente l’ordinanza rammenta le previsioni dell’art. 315 bis comma 2 c.c., in forza delle quali il “genitore debole” anche se ha con il figlio una prevalente convivenza non resta comunque senza tutele, perché questi, oltre che rispettare i genitori, “deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa”.